In questi giorni fa un gran parlare la notizia per cui Trump avrebbe annunciato una nuova riserva strategica governativa in criptovalute (tra cui bitcoin), secondo una sorta di “Fort Knox digitale”.
Tale riserva – come spiega sui social il consigliere della Casa Bianca David Sacks – sarà, tra le altre cose, composta da asset digitali confiscati dal sistema giudiziario americano.
Tutto bello quindi? Sarà tutto oro (digitale) quel che luccica? Decisamente no.
Cerchiamo di fare un po’ di chiarezza a partire dal contesto più generale, ripercorrendo brevemente le origini di Bitcoin.
Uno strumento di difesa
Bitcoin è qualcosa che inizia a essere immaginato già a partire dalla fine degli anni ’70 ed è stato pensato – e viene portato tuttora avanti in questa direzione – da attivisti, sviluppatori e ingegneri informatici con precisi ideali e motivazioni.
L’idea era quella di progettare e rendere disponibili strumenti gratuiti e concreti (tra cui sistemi di email e di messaggistica privati, oppure nuove forme di monete digitali) in grado di consentire agli individui di difendere la propria privacy e la libertà di scambiare valore con altri, senza che qualche prepotente o che qualche autorità di turno avesse potuto tracciare, giudicare, autorizzare o infine censurare qualche transazione.
Negli anni ’90 ci furono molti esperimenti e iniziative in questo senso, portati avanti da economisti, ingegneri informatici o imprenditori. Pensiamo ad esempio ad aziende come Digicash di David Chaum oppure a E-gold di Douglas Jackson, ma anche a progetti rimasti solo sulla carta come Bit-Gold di Nick Szabo oppure a B-Money di Wei Dai.
L’intenzione di questi attivisti era quella di progettare nuovi software e introdurre sistemi di difesa per le persone dalle intrusioni nella sfera privata di multinazionali e di governi, per loro natura avidi di controllo e di sorveglianza ossessiva (esattamente come oggi) nei confronti della popolazione.
Il rilascio del white paper di Bitcoin nel 2008 e il conseguente lancio in produzione del software da parte di Satoshi Nakamoto nel 2009 rappresentò il culmine di questo lungo percorso di ricerche, di innovazioni, di esperimenti e – ahimé – anche di tanti fallimenti.
Riserva strategica per gli Stati?
Negli ultimi anni Bitcoin ha fatto passi da gigante in termini di diffusione. Checché se ne dica, ormai tutti oggi conoscono questo fenomeno o, quantomeno, ne hanno almeno vagamente sentito parlare.
Nel 2024, anzi, vi è stata una grande accelerata in tal senso: l’approvazione della SEC a inizio anno degli ETF spot su Bitcoin negli USA, il quarto halving (dimezzamento) previsto dal protocollo, la campagna elettorale per le presidenziali americane (che ha visto Bitcoin come uno dei temi di scontro tra i candidati Biden e Trump) e molti altri fatti e accadimenti hanno portato questo strumento a una grande attenzione a livello mediatico e istituzionale.
L’asset bitcoin presenta proprietà pressoché uniche. Tra queste, sappiamo che prevede anzitutto un tetto massimo di unità monetarie disponibili (21 milioni), gode di scarsità digitale assoluta, non è manipolabile e risulta pressoché impossibile da inflazionare a piacimento.
Tutto questo non poteva certamente passare inosservato per lungo tempo. L’oro digitale del nuovo millennio, prima o poi, avrebbe infatti ovviamente attirato anche l’attenzione dei grandi fondi istituzionali e, come ovvia conseguenza, anche dei governi: laddove si muovono grandi flussi e trasferimenti di ricchezze, gli Stati ovviamente – per loro natura – vogliono entrare subito a farne parte per spartirsi la torta.
È in questo contesto che, nel 2025, si arriva addirittura a paventare l’idea concreta di una fantomatica “riserva strategica in Bitcoin per la nazione”, come quella annunciata dal neo-eletto Donald Trump.
Lasciamo per il momento in sospeso qualsiasi commento pleonastico sull’enorme confusione mischiata con propaganda del Presidente, che ancora non ha compreso nulla – ma proprio nulla – sulla differenza abissale tra Bitcoin e il tragicomico “mondo crypto”. Concentriamoci invece sul cortocircuito logico per cui uno Stato dovrebbe mantenere delle “riserve” del miglior asset di difesa e protezione del risparmio mai concepito nella storia.
Bitcoin come protezione per le imprese
Se abbiamo afferrato il concetto, Bitcoin nasce come strumento di difesa da soprusi e violazioni alle proprietà private. Uno strumento di protezione da attacchi e tentativi di sottrazione di dati personali, ricchezze e risorse private perpetrati continuamente da multinazionali e da autorità senza scrupoli.
Per un individuo, Bitcoin sappiamo che rappresenta da una parte un formidabile strumento di tutela della privacy finanziaria, mentre dall’altra un efficace ed efficiente tecnologia di risparmio, anche e soprattutto in ottica intergenerazionale.
Per un’impresa, Bitcoin costituisce un’enorme opportunità di protezione del patrimonio aziendale. Oltre all’inflazione, in grado di erodere costantemente valore, bitcoin è realmente proprietà esclusiva dell’impresa: tramite la detenzione delle chiavi private di bitcoin, i fondi sono saldamente in possesso del board aziendale, e non possono essere facilmente congelati, confiscati o censurati nel momento in cui l’azienda voglia trasferirli ovunque in tutto il mondo.
Non solo: oltre ad essere un asset al portatore, bitcoin è anche estremamente liquido. In ogni momento, è possibile acquistarlo o venderlo sui mercati a livello globale in modo molto rapido.
Dovremmo aver inteso il punto: Bitcoin è uno straordinario sistema per proteggere e tutelare la proprietà privata contro qualsiasi forma di aggressione.
Propaganda e confusione
La domanda quindi sorge ora spontanea: nello specifico, da chi o da cosa si dovrebbe invece proteggere uno Stato? Lo Stato riguarda un’organizzazione totalmente improduttiva, che non crea nulla, non innova e non detiene proprietà.
Lo Stato si limita semmai a prelevare ricchezze da altri, ossia dai lavoratori e dagli imprenditori, che lavorano, investono, producono e creano ricchezza e prosperità unicamente mediante risorse proprie.
Da cosa dovrebbe sentirsi minacciato pertanto uno Stato? Forse da sé stesso?
La riserva strategica in Bitcoin ha senso solo quando ci sono in gioco proprietà private. Perde alcun senso quando ci sono in gioco fantomatiche “proprietà pubbliche” (di per sé un evidente ossimoro).
Se ci pensiamo bene, non ha alcun senso parlare di riserva strategica che difenda e tuteli il predatore! Lo Stato non deve proteggersi: quel che “detiene” lo ha semplicemente prelevato forzosamente da risorse private (di individui o di aziende). Il governo è l’unico oggi autorizzato a prelevare ricchezze dal tessuto produttivo in modo diretto attraverso il sistema della tassazione, o indirettamente mediante l’inflazione e la conseguente svalutazione del denaro.
Focus on Bitcoin
Conviene pertanto diffidare categoricamente di queste finte e grottesche iniziative governative, da qualsiasi schieramento esse arrivano. E di smorzare qualsiasi ingiustificato entusiasmo. Si tratta dell’ennesimo specchietto per le allodole architettato ad arte dalla propaganda politica.
Le “riserve strategiche in bitcoin per la nazione” non sono altro che una nuova subdola modalità (e fraudolenta) per confiscare altre risorse derivanti dal risparmio e dal lavoro di cittadini operosi e di imprese innovatrici.
Come individui, è importante quindi studiare Bitcoin e imparare al più presto a difendere al meglio la propria privacy e la libertà insindacabile di poter anzitutto risparmiare, nonostante le ripetute violazioni da parte dello Stato predatorio.
E come imprenditori, per proteggere e tutelare il patrimonio d’impresa costruito con anni e anni (se non con intere generazioni) di lavoro, know-how, investimenti e sacrifici, non rimane altra via che abbracciare lo standard tecnologico Bitcoin e integrarlo nelle proprie aziende.
Prima naturalmente che sia troppo tardi.