Il “sequestro per equivalente” può portare alla sottrazione dei bitcoin, ma non si tratta del caso trattato dalla Cassazione. Intervista all’avvocato del ricorrente, Marco Tullio Giordano.
La sentenza della Corte di Cassazione del 20 novembre 2024, che ha annullato un sequestro di bitcoin in un caso di presunta evasione fiscale, ha generato interpretazioni fuorvianti nel dibattito pubblico nelle ultime settimane.
Come emerge dalle motivazioni della sentenza, pubblicate il 15 gennaio 2025, la realtà è tecnicamente più complessa. Atlas21 ha voluto fare chiarezza parlando con uno dei professionisti che ha seguito il caso in prima persona: l’avvocato Marco Tullio Giordano.
1. Negli ultimi giorni si è diffusa una narrazione imprecisa riguardo l’impossibilità di sequestrare i bitcoin da parte delle autorità?
Sì. La sentenza della Cassazione, pur essendo importante, non stabilisce affatto un’impossibilità generale di sequestrare i bitcoin.
Il principio stabilito dalla Corte è più specifico: Bitcoin e altre criptovalute non possono essere considerati come profitto diretto nei casi di reati tributari. In altre parole, se un soggetto evade le tasse, il vantaggio economico ottenuto non può essere recuperato attraverso il sequestro di bitcoin.
Facciamo un esempio concreto: quando un contribuente evade le imposte, il profitto del reato è rappresentato dalle somme in euro non versate all’Agenzia delle Entrate, non da eventuali criptovalute in suo possesso.
La logica della Cassazione è legata al fatto che in Italia Bitcoin non ha corso legale e non può essere utilizzato per il pagamento delle imposte. Di conseguenza, non può nemmeno essere oggetto di sequestro ai fini tributari.
È importante sottolineare che tale limitazione si applica specificamente al contesto fiscale: un cittadino deve necessariamente adempiere ai propri obblighi tributari in euro, la valuta avente corso legale nel nostro Paese.
2. Può riassumere brevemente il caso che ha seguito?
Il caso riguarda un’attività della Guardia di Finanza che, durante una perquisizione domiciliare effettuata per un procedimento non correlato, ha scoperto delle presunte irregolarità fiscali relative alle criptovalute del mio assistito, all’epoca non indagato.
Gli accertamenti preliminari hanno evidenziato discrepanze tra la sua dichiarazione dei redditi e le operazioni registrate sugli exchange, portando a un’accusa di infedele dichiarazione ex art. 4 del dlgs. 74/2000.
Durante l’ispezione, esaminando i trading log degli exchange e il wallet Electrum del contribuente, la GDF ha ipotizzato un’evasione sulle plusvalenze da criptovalute di circa €120.000, riconducibile a un periodo precedente all’entrata in vigore della Legge di Bilancio 2023 (quella in cui è stata normata la fiscalità delle criptoattività, ndr). Gli agenti hanno quindi richiesto il trasferimento volontario di bitcoin equivalenti al presunto ammanco fiscale (1,888 BTC) su un wallet di nuova generazione attribuito alle autorità.
Successivamente, la GDF ha presentato gli elementi raccolti al tribunale. Il pubblico ministero ha convalidato il sequestro, qualificandolo come sequestro probatorio e considerando i bitcoin sequestrati come profitto del reato tributario, ovvero il presunto guadagno illecito derivante dall’evasione fiscale.
3. Su quali argomentazioni si è basata la difesa per contestare il sequestro dei bitcoin?
La strategia difensiva si è sviluppata attraverso tre argomentazioni fondamentali, che hanno portato al risultato giurisprudenziale favorevole per i contribuenti.
Il primo punto ha riguardato la natura stessa del sequestro. La difesa ha sostenuto che questo non poteva essere qualificato come sequestro probatorio diretto sul profitto del reato, ma doveva invece configurarsi come sequestro preventivo. Una distinzione fondamentale, poiché quest’ultima forma di misura cautelare richiede necessariamente l’intervento di un giudice per essere legittima.
Il secondo elemento chiave si è basato sulla disponibilità di valuta fiat da parte dell’imputato. Il fatto che questi disponesse della somma equivalente in euro sul proprio conto corrente rendeva illegittimo il sequestro dei bitcoin effettuato senza un provvedimento giudiziale. La difesa ha inoltre sottolineato come, per loro natura, le imposte debbano essere necessariamente pagate in valuta avente corso legale. Un aspetto particolarmente rilevante evidenziato dalla difesa riguardava la volatilità intrinseca di Bitcoin: al momento del sequestro il prezzo era di €60.000, ma durante la redazione del ricorso il suo valore era sceso a €49.000, sollevando legittime preoccupazioni sulla capacità dei bitcoin sequestrati di coprire l’eventuale ammontare dovuto in caso di effettiva condanna all’esito del processo di merito che – per completezza – deve ancora iniziare.
Il terzo aspetto ha riguardato il principio del sequestro “per equivalente”, ovvero la confisca di beni di pari valore se non si possono sequestrare quelli ottenuti illegalmente. La difesa ha argomentato che, sebbene i bitcoin possano essere oggetto di sequestro preventivo per equivalente, tale procedura richiede obbligatoriamente un provvedimento del giudice, che funga anche da garante dei diritti dell’indagato. Non è infatti ammissibile procedere al sequestro diretto dei bitcoin qualificandoli come profitto del reato tributario.
La Corte di Cassazione ha accolto pienamente tali argomentazioni, stabilendo l’illegittimità del sequestro dei bitcoin nel caso specifico, proprio in considerazione della disponibilità della somma equivalente in valuta fiat da parte dell’imputato.
4. Quali saranno i prossimi passi del caso?
Dopo la conclusione delle indagini preliminari, il caso procederà verso il processo di primo grado. La pronuncia della Cassazione ha definitivamente chiuso la fase cautelare, aprendo la strada alla valutazione del merito.
Il cuore del processo sarà l’analisi approfondita della correttezza della dichiarazione dei redditi presentata dall’imputato e delle imposte sulle plusvalenze pagate. Il tribunale dovrà esaminare nel dettaglio la conformità fiscale di tutte le operazioni in criptovalute effettuate, attraverso un’attenta valutazione della documentazione contabile disponibile.
Il caso si configura come un potenziale precedente giurisprudenziale per numerosi contribuenti italiani che hanno gestito e dichiarato criptovalute prima del 2023, periodo in cui mancava una normativa specifica di riferimento.