Dalle origini all’ultima sentenza, la storia dell’uomo che dice di essere Satoshi Nakamoto per monetizzarne il lavoro con la vendita di proprietà intellettuale. Craig Steven Wright, alias Faketoshi
“Granath aveva sufficienti basi fattuali per affermare che Wright aveva mentito e imbrogliato nel tentativo di dimostrare di essere Satoshi Nakamoto”.
Sono le parole scritte dal giudice norvegese Helen Engebrigtsen nella sentenza, emessa il 20 ottobre 2022, relativa al processo che vedeva contrapposti Magnus Granath – noto su Twitter con lo pseudonimo Hodlonaut – e Craig Steven Wright. Come riporta la Corte distrettuale di Oslo, nel 2019 Hodlonaut aveva definito Wright su Twitter “patetico truffatore”, “cringe”, “chiaramente malato di mente”. Il tribunale ha stabilito che questi termini non fossero diffamatori anche per il fatto che le evidenze portate da Wright a sostegno della sua tesi – quella di essere il vero Satoshi Nakamoto – non sono state convincenti.
Quello del processo tra Hodlonaut e CSW – come viene spesso abbreviato Wright – è un capitolo di una storia lunga ormai otto anni. La storia di Faketoshi, termine utilizzato per apostrofare Wright ormai anche da uno dei suoi più storici sostenitori, oggi ricedutosi, Christen Ager-Hanssen.
Un mare di debiti
Nel 2015 Craig Wright è un informatico e imprenditore australiano quarantacinquenne che vive vicino a Sydney. Non ci sono grandi certezze sulla sua formazione: tra i due dottorati elencati sulla sua pagina LinkedIn, CSW ne menziona uno in informatica alla Charles Sturt University di Bathurst, Australia, ma l’istituto nega di avergli conferito alcun titolo di quel tipo. Gli ha invece concesso tre master in campi correlati: Networking and Systems Administration, Management (Information Technology) e Information Systems Security.
Gli affari non vanno alla grande. Delle società gestite, una è in amministrazione controllata, le altre sono sull’orlo del fallimento e hanno bisogno di $200.000 a settimana per sopravvivere. Wright e la moglie Ramona sono costretti a vendere le auto di famiglia per sostenere le spese degli avvocati, con cui hanno $1.000.000 di debiti. Serve a tutti i costi un modo per rialzarsi. Fortunatamente per lui – stando alle parole della madre rilasciate ad Andrew O’Hagan in The Satoshi Affair – Wright è sempre stato un uomo pieno di fantasia, abituato a incorniciare accuratamente piccoli pezzi di verità per farli apparire più scintillanti.
Quando era un adolescente è andato a sbattere contro il retro di un’auto in bicicletta. Sua sorella lo ha accompagnato in ospedale e lui ha detto al dottore che si era rotto il naso una ventina di volte. Il dottore ha risposto: “Non è possibile che tu te lo sia rotto. E Craig: “Mi cucio da solo quando mi faccio male”.
Viste le sue abilità, a Wright ciò che serve per rimettersi in piedi economicamente è una storia da vendere. Una storia costruita bene, che possa avere molto richiamo e che abbia a che fare con le sue competenze informatiche.
Perché non far credere di essere il ricercatissimo inventore misterioso dietro a Bitcoin? Perché non dire al mondo: “Io sono Satoshi”?
L’accordo miliardario
Stefan Matthews è un esperto di IT che CSW conosce dal 2005, quando lavoravano entrambi per Centrebet, un sito di scommesse online. Wright spiega a Matthews di essere il nome principale dietro alla nascita di Bitcoin. E’ stato assistito però da altre persone: una su tutte Dave Kleiman, informatico americano, venuto a mancare nel 2013, che lo aveva aiutato in particolare nella stesura del white paper.
L’imprenditore australiano dice di aver creato in passato un fondo fiduciario, il Tulip Trust, in cui sono depositati 1.100.111 bitcoin, ossia l’ammontare presumibilmente riconducibile alle chiavi pubbliche di Satoshi Nakamoto. Secondo il suo racconto, Wright aveva fatto firmare a Kleiman un accordo – di cui però non si è mai avuta nessuna evidenza – in cui si affermava che sarebbe stato Kleiman stesso a custodire quei bitcoin. In un successivo patto separato poi, anch’esso mai reso pubblico, Kleiman sarebbe entrato in possesso di soli 350.000 bitcoin che sarebbero dovuti essere restituiti a Craig Wright il primo gennaio del 2020.
I due avrebbero poi formato una società, la Plaintiff W&K Info Defense Research LLC, con l’intento specifico di fare mining di bitcoin. E’ importante il nome di quest’azienda, perché tornerà in una delle future cause di CSW. I dettagli di tutte queste informazioni fin da subito non sono però chiari: quanti e quali erano gli amministratori del Tulip Trust? Come venivano detenuti quei bitcoin? Risposte vaghe e talvolta discordanti che però bastano per convincere Stefan Matthews a ideare un progetto coinvolgendo un terzo socio: Robert MacGregor.
MacGregor è il fondatore e Ceo di nTrust, società di money-transfer con sede in Canada. Insieme a Matthews e Wright firma un accordo il 29 giugno 2015 per la costituzione di nCrypt, società interamente controllata da nCrypt Holdings, a sua volta in mano a nTrust. Gli obiettivi principali sono tre:
- Azzerare i debiti che affliggono Craig Wright e le sue aziende facendole tutte acquisire da nCrypt;
- Lavorare con gli avvocati per ottenere i diritti della storia di Craig Wright su Satoshi Nakamoto;
- Brevettare il lavoro di Satoshi Nakamoto e trasferirne tutte le proprietà intellettuali presso nCrypt per poi venderle al miglior offerente, una volta rivelata al mondo la vera identità di Craig Wright.
Proprio così: l’idea è quella di prendere un codice open-source, libero, consultabile e utilizzabile da chiunque e privatizzarlo, per poi venderlo a peso d’oro.
Il piano è il seguente: stabilire un centro di ricerca e sviluppo a Londra dove Wright possa lavorare con il supporto di 30 collaboratori; completare le centinaia di richieste di brevetti per progetti blockchain su cui Wright stava già lavorando da tempo; annunciare, con un accurato lavoro di relazioni pubbliche, chi è Satoshi Nakamoto e, alla fine, vendere i suoi brevetti a un prezzo stimato di $1.000.000.000. Budget complessivo: $15.000.000. Insomma, un affare.
Non è un dettaglio che nCrypt Holdings sia registrata ad Antigua, dove ha sede anche Bodog, società di scommesse di proprietà del miliardario canadese Calvin Ayre. Figura molto fumosa, secondo molti Ayre è da sempre il deus ex machina del progetto e tutt’oggi è il finanziatore delle cause legali che Craig Wright intenta a chi lo accusa di essere un truffatore. E’ anche il fondatore, nel 2017, di CoinGeek, blog d’informazione online che da sempre supporta Wright e i suoi progetti.
Il 9 dicembre 2015 sotto mandato dell’Australian Taxation Office la casa di Craig Wright viene perquisita ma lui e la moglie riescono a fuggire prima dell’arrivo delle autorità. Da lì a pochi giorni Wright è a Londra nei suoi nuovi uffici di Oxford Circus.
Il grande annuncio
La visita dell’Australian Taxation Office non arriva in un giorno qualunque. La mattina precedente due giornali hanno pubblicato due articoli che indicavano Wright come il possibile uomo dietro lo pseudonimo di Satoshi Nakamoto.
- Wired (articolo in seguito modificato): Il creatore di Bitcoin è questo genio australiano sconosciuto?
- Gizmodo: Un australiano sostiene di aver inventato Bitcoin insieme a un amico morto.
Gli articoli vengono pubblicati in seguito a una serie di documenti arrivati alle due redazioni che mostrerebbero un legame molto forte tra il passato di Satoshi e quello di CSW. Il materiale, secondo Wired, sarebbe stato mandato “da una fonte anonima vicina a Craig Wright” a Gwern Branwen, uno pseudonimo analista del dark web. Branwen avrebbe poi fornito questi documenti alla testata.
Diverse prove mostrate inizialmente da Wired e Gizmodo, però, sembrano fasulle: un esempio è la chiave PGP di Satoshi Nakamoto che, come riportato da Vice il 9 dicembre, ha un’alta probabilità di essere stata retrodatata.
Le critiche piovono. Dopo solo tre giorni dal primo pezzo, l’11 dicembre, Wired cambia idea e pubblica un nuovo articolo intitolato: “Nuovi indizi suggeriscono che Craig Wright, sospetto creatore di Bitcoin, potrebbe essere un imbroglione”.
CSW è preso in controtempo e passa i giorni immediatamente successivi a ripulire la sua presenza online. La tecnica funziona: dopo un iniziale subbuglio mediatico le acque si calmano. Wright, insieme a Matthews e MacGregor, può iniziare a pianificare il lavoro.
Passano le settimane e l’australiano sembra fiducioso della riuscita del piano. Si concede persino l’acquisto di automobili per un valore di $180.000, comprando in particolare una BMW i8s personalizzata. Non l’ideale per un personaggio che non deve dare nell’occhio per ancora qualche settimana. MacGregor non è contento, ma il patto ormai è firmato e lui si sta già spendendo per discutere la vendita dei brevetti con compratori interessati di enorme rilievo: Google, Uber e grandi banche svizzere. Bisogna andare avanti.
Il 24 e il 25 aprile 2016 alcune testate giornalistiche selezionate, tra cui la BBC, si recano presso l’ufficio dell’azienda di relazioni pubbliche ingaggiata dai tre, a Tottenham Court Road. I giornalisti sono lì per assistere alla firma crittografica che dimostrerebbe come Craig Wright sia in possesso delle chiavi private di Satoshi Nakamoto, ma non sanno che dietro a questa rivelazione c’è un progetto di vendita di brevetti miliardario. Nessuno li ha informati. Sono lì perché la notizia, di per sé, è molto succosa.
Sono due i modi in cui Wright può usare le chiavi private di Satoshi:
- Spostare alcuni dei primi bitcoin che appartengono notoriamente a Satoshi e che non sono mai stati spesi;
- Firmare digitalmente un messaggio.
La prima transazione della storia di Bitcoin è quella in cui Satoshi ha inviato 10 bitcoin ad Hal Finney, l’11 gennaio 2009. La chiave pubblica, per forza di cose, è nota.
Apparentemente Wright – utilizzando la chiave privata associata a quella chiave pubblica – firma un messaggio davanti alla stampa citando le parole di Jean-Paul Sartre che giustificavano il suo rifiuto del Premio Nobel per la Letteratura nel 1964: “Non voglio essere istituzionalizzato”.
Il messaggio di Craig Steven Wright per il grande pubblico è dunque questo:
.Non lo faccio perché è quello che voglio, ma perché non posso rifiutare. Perché ho un team, ho una famiglia. Quindi ho scelto di firmare Sartre perché non è una mia scelta, non ho scelto di fare coming out, mi è stato imposto.
Il seguente è un estratto dell’intervista alla BBC:
La stampa è persuasa, firma un accordo di embargo e il momento di pubblicazione della notizia viene fissato al 2 maggio.
Alle otto di mattina in punto i media iniziano a diffondere lo scoop: BBC ed Economist sono i primi a uscire insieme a un lungo post di Wright che, sul proprio sito, spiega la procedura utilizzata per dimostrare la veridicità delle firme. Il titolo è: “Jean-Paul Sartre, firma e significato”.
L’articolo che fa più rumore in assoluto, però, è un altro. Intitolato “Satoshi”, è pubblicato da Gavin Andresen, una delle personalità più rispettate in assoluto nel mondo Bitcoin fino a questo momento. L’uomo che, secondo alcuni, avrebbe ereditato la leadership dello sviluppo dopo la scomparsa di Satoshi nel 2011. Andresen scrive di credere che “Craig Steven Wright sia la persona che ha inventato Bitcoin”.
Sì, perché poco più di due settimane prima rispetto alla dimostrazione con i media, il 7 aprile, Andresen è stato a Londra per incontrare Craig Wright. Come scrive lui stesso, la visita è stata dedicata a “un’attenta verifica crittografica dei messaggi, firmati con chiavi che solo Satoshi dovrebbe possedere”.
Le parole di Gavin Andresen sono una bomba atomica.
Le reazioni
Nel giro di poche ore il dibattito online si infiamma e gli esperti di tutto il mondo si affrettano ad analizzare riga per riga i dati forniti da Wright nel suo post. Nonostante il clamore mediatico e l’endorsement di Andresen, non passa molto tempo quando la comunità inizia ad accorgersi che i conti non tornano.
- Patrick McKenzie, programmatore: “Il post di Wright resiste a pochi minuti di esame superficiale. Dimostra il livello di familiarità di un sysadmin competente con gli strumenti crittografici, ma alla fine non dimostra alcuna informazione non pubblica su Satoshi”.
- Jonathan Bier, estratto di “The Blocksize War”: “Il post sembra essere stato progettato per creare confusione o per ingannare le persone che non hanno alcuna comprensione o esperienza con la crittografia, facendo credere che si tratti di una prova”.
- Peter Todd, sviluppatore Bitcoin: “E’ come fotocopiare la firma di qualcun altro su un documento pubblico e affermare che è la prova che sei tu. Dato che la prova fornita è inesistente – e Craig ha una storia di truffe – questo potrebbe semplicemente essere parte di una truffa più grande”.
- Dan Kaminsky, ricercatore: “La procedura che dovrebbe dimostrare che il dottor Wright è Satoshi è resistente alla convalida effettiva. Si tratta di una truffa intenzionale”.
L’utente di Reddit /r/JoukeH scopre che effettivamente è presente una firma nel post di Wright, ma che “è semplicemente presa da una delle transazioni che Satoshi aveva firmato sulla blockchain”. Non c’è alcun messaggio che affermi che Craig sia Satoshi. Tutto ciò che Craig sembra aver fatto è stato copiare e incollare una firma dalla blockchain pubblica e aggiungerla a un post sconclusionato.
I social si infiammano. In particolare Reddit, già da tempo punto di riferimento per le discussioni su Bitcoin. I rapporti tra Matthews, MacGregor e Wright iniziano a scricchiolare concretamente e quest’ultimo viene costretto a fornire una nuova prova crittografica facendo una transazione. Gavin Andresen si rende disponibile a esserne il destinatario e il 4 maggio è il giorno fissato per il nuovo tentativo. Al momento di inviare il pagamento Wright si alza e lascia la stanza.
A pochi giorni dalla figuraccia mondiale Matthews e MacGregor realizzano di aver perso un potenziale guadagno di $1.000.000 e i rapporti con Wright si sfaldano definitivamente. L’ufficio di nCrypt ad Oxford Circus viene svuotato.
Al di là della mancata firma, con il tempo verranno fuori decine e decine di dissonanze tra la realtà e i documenti presentati da Craig Wright. Come spiegherà lo sviluppatore Jameson Lopp su Bitcoin Magazine nel 2019, per esempio, tra il 2014 e il 2015 Wright avrebbe modificato un vecchio post del 2008 per far credere di aver lavorato su una criptovaluta proprio in quell’anno.
Dalla Blocksize War a Bitcoin Satoshi’s Vision
Sfumato il progetto da un miliardo di dollari, Wright deve trovare un altro modo per fare soldi. Dopotutto, il suo legame con Calvin Ayre è ancora saldo. Continuerà ad essere lui l’alfiere delle battaglie di colui che online è ormai diventato conosciuto come “Faketoshi”. E la battaglia successiva, che avviene tra il 2015 e il 2017, si chiama Blocksize War: Il termine fa riferimento allo scontro tra chi vuole aumentare la dimensione dei blocchi della blockchain di Bitcoin e chi invece vuole mantenerla molto limitata. La battaglia, com’è noto, verrà vinta da quest’ultimi.
Craig Wright fa parte degli sconfitti, i cosiddetti big blocker, cioè quelli che pensano che Bitcoin possa essere scalabile solamente aumentando la dimensione della blockchain. La vede, in poche parole, come Roger Ver: uno di quelli che non aveva escluso la possibilità che Wright fosse Satoshi, come lui stesso aveva dichiarato il 5 maggio 2016.
Penso che ci siano abbastanza prove per ritenere che sia più probabile che lo sia, anziché il contrario.
Perso lo scontro con gli small blocker su Bitcoin, in una prima fase Wright appoggia il progetto di cui Ver si fa portabandiera: Bitcoin Cash. Un hard fork di Bitcoin con blocchi più grandi. Calvin Ayre, con il suo CoinGeek, funge da braccio mediatico, sostenendo BCash articolo dopo articolo, salvo, dopo poco tempo, cancellarli tutti.
Sì, perché il 15 novembre 2018, a poco più di un anno dal lancio di BCash, Wright decide di far valere la sua opinione: da tempo voleva che il limite di dimensione dei blocchi aumentasse a un ritmo ancora più veloce rispetto a quello previsto dal progetto sostenuto da Roger Ver. Avviene quindi un nuovo hard fork e nasce Bitcoin Satoshi’s Vision, o BSV. Da quel momento la linea editoriale di CoinGeek vira drasticamente in sostegno di questo nuovo fork che diventa, a tutti gli effetti, la criptovaluta di Craig Wright e Calvin Ayre. Il confronto con il vero Bitcoin, negli anni, sarà impietoso.
La caduta del Tulip Trust
Sempre nel 2018, ad aggravare ulteriormente le cose per Craig Wright, arriva Ira Kleiman, fratello del defunto Dave. Ira fa causa a Wright sostenendo di avere diritto agli 1,1 milioni di bitcoin che sarebbero appartenuti anche a Dave Kleiman, secondo l’accordo che lo stesso Wright ha sempre detto di aver stipulato. L’idea del Tulip Trust e dei bitcoin di Satoshi Nakamoto dati in custodia a Kleiman si ritorce contro Faketoshi, che in tribunale non riesce a dimostrare nemmeno l’effettiva esistenza del fondo fiduciario.
Durante il processo, Wright sostiene che le chiavi di Satoshi Nakamoto siano protette da un particolare backup e in mano a terze parti e che quindi i fondi non possano essere mossi. La smentita, prima logica e poi empirica, non tarda ad arrivare.
In un post del 27 febbraio 2018 l’informatico Kim Nilsson dimostra che molti degli indirizzi indicati come appartenenti al trust possono essere in realtà attribuiti ad altre persone. Il 4 maggio 2019, il proprietario di un indirizzo pubblicherà un messaggio firmato attestando che i bitcoin associati all’indirizzo non sono di proprietà né di Satoshi né di Wright. Il messaggio recita quanto segue:
L’indirizzo 16cou7Ht6WjTzuFyDBnht9hmvXytg6XdVT non appartiene a Satoshi o a Craig Wright. Craig è un bugiardo e un truffatore.
Dopo tre anni e mezzo dall’esposto di Ira Kleiman, la sentenza arriva il 7 dicembre 2021. Il giudice, condannando Wright a versare $ 100.000.000 nelle casse di Plaintiff W&K Info Defense Research LLC, scrive quanto segue:
Il fascicolo è pieno di casi in cui l’imputato ha fornito testimonianze giurate contrastanti davanti a questa Corte. Nel soppesare le prove, la Corte semplicemente non ritiene credibile la testimonianza dell’imputato. […] La totalità delle prove agli atti non dimostra l’esistenza del Tulip Trust.
Il 9 marzo 2022 verrà poi pubblicato un emendamento. Ira Kleiman vincerà anche la battaglia sugli interessi pregiudiziali e Wright dovrà versare ulteriori $43.132.492,48.
Un nuovo modello di business fallimentare: le cause
Fallito il tentativo di privatizzare la proprietà intellettuale di un codice open-source e quello di soverchiare il Bitcoin originale con il proprio hard fork, a Craig Wright e Calvin Ayre resta una sola arma per provare a ripristinare una reputazione ai minimi storici e racimolare qualche soldo. Sfruttare il sistema giuridico britannico – storicamente molto severo nei confronti dell’accusato nei casi di diffamazione – per perseguire legalmente chi online definisce Wright un “truffatore”.
In particolare, utilizzando lo strumento delle Slapp: Strategic Lawsuit Against Public Participation (cause strategiche contro la partecipazione pubblica). Si tratta di azioni legali mirate a ostacolare il dibattito, utilizzate in particolare da soggetti facoltosi per mettere a tacere i critici, costringendo questi ultimi a spendere cifre molto significative per difendersi durante le cause. L’alternativa è ritrattare e chiedere scusa anche quando si ritiene di aver ragione.
Il 17 aprile 2019 Wright denuncia per diffamazione il noto podcaster Peter McCormack per averlo definito “truffatore” in diverse occasioni – sia su Twitter che su YouTube – elencate nella richiesta di indennizzo. In particolare, i legali di Wright richiedono l’aggravante del danno grave alla reputazione. Il giudice, nella sentenza del primo giugno 2022, condannerà McCormack al risarcimento simbolico di £ 1, scrivendo quanto segue:
La tesi deliberatamente falsa sul grave danno avanzata dal dottor Wright fino a pochi giorni prima del processo richiede più di una semplice riduzione del risarcimento dei danni. A mio avviso, è inconcepibile che il dottor Wright riceva più di un risarcimento nominale.
Arriviamo così all’ultimo capitolo della saga Faketoshi. Nel 2019 anche Hodlonaut twitta sostenendo che Craig Wright non sia Satoshi Nakamoto, definendolo “truffatore”. I legali di Wright gli intimano di ritrattare e di pubblicare questo messaggio di scuse:
Ho sbagliato a sostenere che Craig Wright abbia affermato in modo fraudolento di essere Satoshi. Accetto che sia Satoshi. Mi dispiace dottor Wright. Non ripeterò questa diffamazione.
Hodlonaut per difendersi sarà costretto a rivelare la sua identità, Marcus Granath, e a spendere circa $2.400.000. Da cittadino norvegese, nel 2019 fa a sua volta causa a Wright nel suo Paese natale per ottenere, con successo, l’archiviazione del procedimento britannico per difetto di giurisdizione. Le udienze si svolgono quindi a Oslo e, il 20 ottobre 2022, arriva una sentenza storica. Oltre a condannare Wright a versare a Granath 4.053.750 corone norvegesi per le spese legali – l’equivalente di $383.000 dollari – per la prima volta un tribunale si pronuncia espressamente sulla vera identità di Satoshi Nakamoto:
Entrambe le parti hanno cercato di dimostrare rispettivamente che Wright è e non è Satoshi Nakamoto. Il tribunale sottolinea che le prove portate nel caso non sono idonee a modificare la sua opinione prevalente, secondo cui Craig Wright non è Satoshi Nakamoto. Sono stati prodotti diversi documenti che Wright sostiene essere versioni iniziali del White Paper e del codice sorgente. Le analisi forensi di KPMG (per conto di Hodlonaut) e di BDO (per conto di Wright) hanno riscontrato che questi documenti contengono, nella migliore delle ipotesi, modifiche inspiegabili che probabilmente sono state apportate dopo la data in cui i documenti sono stati dichiarati. Granath aveva sufficienti basi fattuali per affermare che Wright aveva mentito e imbrogliato nel tentativo di dimostrare di essere Satoshi Nakamoto. Le dichiarazioni non sono illegali.
Tra le tante contraddizioni emerse su Craig Steven Wright durante tutta la storia di Faketoshi, se ne aggiunge una particolarmente curiosa durante il processo di Oslo. Il Tulip Trust, la cui esistenza era già stata messa in dubbio dalla sentenza Kleiman, pare non esistere più nemmeno nei pensieri di Wright. Nessun cofirmatario, nessuna terza parte coinvolta. Il sedicente Satoshi Nakamoto sostiene di non essere più in possesso delle chiavi originali dopo aver volutamente calpestato l’hard drive che le conteneva. “Altrimenti – ha sostenuto – le persone finiranno per costringermi a fare qualcosa che non voglio fare“.